SMART WORKING TRA TEORIA E PRATICA: le implicazioni organizzative di un “sogno”

Quando Philippe Vanhouette e Guy Clapperton hanno scritto il Manifesto dello Smarter Working, pubblicato in Italia da Edizioni Este, avevano in testa la “Human Realization” e vedevano nello Smarter Working una organizzazione del lavoro che supportata dalle tecnologie possa permettere “ai dipendenti di essere felici e realizzati” decidendo in modo autonomo la distribuzione dei carichi di lavoro e il luogo in cui lavorare.
KNOWLEDGE BASED NUVOLA 1 RF4S1300Una organizzazione in grado non solo di rispondere alle loro esigenze esplorate con l’Employee Work Space Satisfacion Survey”, ma anche capace di creare spazi di lavoro ottimizzati che consentono risparmi sugli affitti, facility e costi e di dotarsi di tecnologie che agevolassero i processi lavorativi in e out l’impresa.
In effetti lo Smart Working è una modalità di lavoro flessibile, sia dal punto di vista degli orari che della sede di lavoro in cui è previsto l’uso delle tecnologie.

In Italia ne parla il Disegno di Legge Governativo, del 28 gennaio 2016, interamente dedicato alla disciplina del Lavoro Agile (Smart Working), in cui si ribadisce la natura subordinata e la differenza tra lo Smart Working e il telelavoro e vengono fissate alcune regole generali. Pensare a come rendere operativo questo “sogno organizzativo” è in mano alle imprese e non è una cosa facile.
Ma cosa significa davvero per le imprese dotarsi di una strategia per l’implementazione dello Smart Working?
Innanzitutto significa ripensare il lavoro inteso in senso lato, il cosa fare, come e dove, ponendo al centro il collaboratore (considerandolo una sorta di “cliente interno”) a cui offrire un ambiente friendly, sia dal punto di vista estetico che relazionale, una organizzazione del lavoro in cui il collaboratore possa scegliere come gestire le proprie attività e come impostarle e strumenti tecnologici adeguati.
Le esperienze, peraltro ancora limitate nel nostro paese, inducono a ritenere che il percorso sia ben più difficile di quanto si possa ipotizzare e gli ostacoli si trovano day by day, quindi è bene che i decison makers aziendali che vogliono far atterrare il sogno della Human Realization utilizzino un approccio molto “razionale” e non ideologico. Passare dalla teoria alla pratica non è un bel salto che non tutte le imprese sanno o possono fare.
Le realtà organizzative in cui lo smart working è stato implementato con successo evidenziano alcuni tratti comuni, nel processo utilizzato:
Formazione: per cambiare la cultura organizzativa e renderla adatta ai nuovi processi operativi e protocolli di lavoro hanno formato le persone e il management,
Management model: hanno adottato un management model caratterizzato da: responsabilizzazione diffusa nei processi decisionali, di delega e controllo, trasparenza e chiarezza nella comunicazione, cultura del coordinamento e collaborazione, obiettivi chiari, misurabili e condivisi.
Lay out degli spazi: hanno predisposto spazi adatti e flessibili in cui l’orientamento funzionale delle aree permette la collaborazione, lo scambio di informazioni quando le persone sono in door. Gli spazi sono utilizzati su prenotazione e sono costruiti utilizzando la Participatory action research (PAR) che consente ai fruitori di costruire insieme ai designer gli spazi;
Modello tecnologico: sono passate da un modello tecnologico “desktop computing” a un modello “user computing”, i lavoratori possono lavorare nei diversi spazi della struttura;
Multifunzionalità: hanno utilizzato team multifunzionali, composti da sociologi per l’analisi del contesto sociale e l’utilizzo delle metodologie di ricerca partecipative (PAR), formatori per gli interventi tesi a modificare la cultura organizzativa, architetti per disegnare gli spazi, ingegneri per ricostruire l’organizzazione del lavoro, economisti per valutare l’impatto della nuova organizzazione;
A fronte di alcune ricerche che rilevano nelle grandi aziende internazionali che chi lavora “fuori dall’azienda” è anche più produttivo dei dipendenti che rimangono stabilmente in ufficio, meno assenteista, più soddisfatto e fedele all’impresa, le esperienze realizzate sollecitano alcune riflessioni e ambiti di “Warning” perché lo Smart working non è per tutti (i ruoli) o per tutte le persone e spesso non è adatto alla tipologia di organizzazione che vorrebbe applicarlo per rispondere ai bisogni dei propri collaboratori di una maggiore autonomia e flessibilità.
Warning rispetto ai ruoli:
Mansioni e ruoli: le mansioni compatibili con la possibilità di svolgere lo smart working devono essere scelte con cura dopo una analisi organizzativa approfondita
Sistemi e le metodologie di pianificazione: delle attività, di definizione degli obiettivi devono essere ben testati e rodati.
Regole: Le regole di gestione devono essere chiare e semplici, soprattutto devono essere ben chiare le forme di controllo del lavoro svolto per evitare conflitti nella fase di valutazione dei risultati.
Warning rispetto le persone:
Lo smart working è in primis un profondo cambiamento culturale che comporta il passare dalla timbratura del cartellino all’auto-organizzazione che è una forma di lavoro molto “libera” ma non facile anche per le persone socializzate al lavoro eterodiretto. Il successo dipende quindi anche dalle caratteristiche personali del collaboratore, quando è “normativo” e finalizzato e in grado di auto-regolarsi ha più probabilità di vivere positivamente l’esperienza. Ma deve essere anche pro-attivo, information seeker, attratto dalla sperimentazione: caratteristiche meno diffuse di quanto non sia il desiderio di un lavoro gestito autonomamente.
L’esigenza di socialità: il lavoro risponde non solo al senso di “efficacia” che c’è in ognuno di noi, ma anche all’esigenza di stare in un gruppo dai confini certi, in cui ritagliarsi la propria zona di comfort e condividerla. Lo Smart Working, soprattutto quando si svolge all’esterno dell’azienda risponde molto blandamente a questo bisogno. Credo che nelle riflessioni che si sono fatte intorno alla libertà di lavorare dove e quando vuoi, si sia abbondantemente sottovalutato questo aspetto che invece appare come fortemente motivante nelle indagini sul clima aziendale.

Tre sono i fattori organizzativi da cui non si può comunque prescindere:
La maturità dell’organizzazione: il modello di Greiner ci aiuta nell’individuare la fase organizzativa più adatta per “ottimizzare” l’impiego dello Smart Working. Dopo lo sviluppo legato alla delega e al coordinamento, c’è la fase di sviluppo legato alla collaborazione. E’ in questa fase che lo smart working può contare su una organizzazione consolidata
• Maturità del gruppo in cui la persona è inserita: anche i gruppi hanno un loro ciclo di vita e fasi di crescita: dalla formazione, la fase del confronto e delle norme precedono la fase degli obiettivi. La tenuta del gruppo si ha quando lo Smart Working viene utilizzato nella fase degli obiettivi, quando le persone sono socializzate alla relazione ma hanno anche interiorizzato le norme e sanno confrontarsi. In questo modo manterranno le buone pratiche anche mutando il luogo di lavoro e allargando il concetto di “colleganza”.
Maturità dell’individuo: Erikson ci direbbe che è nella fase della generatività il tempo migliore per essere uno Smart Worker, quando si ha la capacità di generare idee e il bisogno di trasferirle, quando cioè le persone sono uscite dal proprio guscio, conoscono bene l’organizzazione e hanno la forza per auto-normarsi.
Insomma, lo Smart Working è da maneggiare con cura, può essere una opportunità per l’individuo e per l’organizzazione solo se si è consapevoli di tutte le implicazioni e si hanno chiari gli obiettivi dal lato del collaboratore e dal lato dell’impresa. Lo Smart Working è appunto una sintesi “virtuosa” in cui il riconoscimento reciproco si basa sulla fiducia e la stima.


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